Lewis Carroll è lo pseudonimo con cui nel 1856 Charles Lutwidge Dodgson cominciò a firmare le sue opere non scientifiche.
Nato il 27 gennaio del 1832 a Daresbury, nell’Inghilterra sud occidentale, Charles proveniva da una famiglia ultraconservatrice e di costumi decisamente vittoriani, appartenente alla classe medio-alta. Quello familiare non era il solo ambiente austero a cui Charles si sarebbe dovuto adeguare: a quattordici anni entrò nella “public school” di Rugby, dove la disciplina ed il rigore erano severamente salvaguardati da punizioni corporali che non avrebbero certo lasciato un buon ricordo di quell’esperienza scolastica.
C’erano poi le pratiche religiose, a cui il nostro non pareva non adempiere con diligente costanza dato che suo padre era un uomo di culto. Nel gennaio del 1851 fece il suo ingresso nel collegio universitario di Christ Church per risiedervi fino al 1898, anno della sua morte.
In quello stesso anno venne nominato “ student”, diventando membro a vita del collegio con l’obbligo di rimanere celibe e di prendere gli ordini, riuscendo però poi a fermarsi al diaconato visto il suo scarso interesse ad avanzare nella carriera ecclesiastica.
Laureatosi alla fine del 1854, due anni dopo fu nominato “lecturer2 e cominciò ad insegnare matematica, attività che continuò a svolgere per ben ventisei anni pubblicando anche una gran quantità di scritti logici e matematici.
In linea di massima si può dire che la sua fu una vita monotona, priva di avvenimenti particolarmente interessanti: una vita tranquilla, senza sesso e senza lunghi viaggi, se si esclude la volta in cui il nostro, nel 1867, dovette recarsi in Russia dove soggiornò per circa sei settimane.
Charles non amava neppure salire sul pulpito, forse a causa del difetto di balbuzie che si portava con sé fin da bambino, e così le sue prediche erano rare.
Ma se spostiamo il discorso sui suoi hobby e sulla sua attività letteraria, allora ci troviamo di fronte ad una persona meno schiva e più vivace: Lewis Carroll, per l’appunto, l’alter ego della personalità fin qui ritratta.
Da ragazzo aveva scritto, curandone anche le illustrazioni, alcuni giornalini tra cui ricordiamo The Rectory Umbrella, in cui l’allora diciassettenne Charles avanzava la curiosa ipotesi di un mondo retto da un solo governo ed in cui si parla un’unica lingua uguale per tutti.
Amava il teatro e l’opera, quando sappiamo che generalmente l’arte teatrale era mal vista negli ambienti ecclesiastici. Era appassionato di fotografia e amava i giochi e i rompicapi (lui stesso ne inventò moltissimi). E poi ci sono le sue opere letterarie, firmato Lewis Carroll: Alice in Wonderland ed il suo seguito Through the Looking-glass and what Alice found there, Phantasmagoria, The Hunting of the snark, an agony in eight fits, Sylvie and Bruno, Sylvie and Bruno concluded,The nurser Alice.
Alla base di Alice nel paese delle meraviglie e del suo seguito Dietro lo specchio e ciò che Alice vi trovò c’è un’altra una grande passione di Charles Dodgson/Lewis Carroll, quella per le bambine, che furono le sue uniche vere amiche. Una passione che non si è mai voluto definire equivoca e a cui è sempre stato attribuito un valore puramente spirituale, una passione che si collocava nella diffusa tendenza, nell’Inghilterra vittoriana, a idealizzare la bellezza fisica e la verginità delle fanciulle, tanto che Charles amava anche fotografarne i corpi nudi, ma solo dopo aver ottenuto il consenso delle rispettive madri.
E’ lecito affermare che Carroll, nel rapporto con le sue amichette, avesse spesso un atteggiamento da innamorato, ma nulla autorizza a metterne in dubbio l’innocenza da un punto di vista sessuale. La sua preferita rimase sempre Alice Liddell, la figlia del decano di Christ Church, Henry George Liddell. E’ in lei che si riflette la protagonista del libro ed è a lei e alle sue due sorelle, che Carroll si rivolge nei versi che introducono Alice in Wonderland. Il libro non è un semplice racconto per bambini.
E’ il trionfo del “nonsense”, dell’improbabile, in cui il capovolgimento della realtà quotidiana si propone come l’antidoto al pedante conformismo vittoriano, di cui anche Carroll era inevitabilmente intriso nella sua doppia veste di diacono e docente. Gli occhi di Alice sono quelli dell’innocenza e della non ancora corrotta spontaneità, qualità destinate però ad appannarsi con il trascorrere degli anni a causa dell’invadente ruolo delle convenzioni sociali; la sua fantastica avventura nel Paese delle Meraviglie è una momentanea fuga dal pragmatico mondo degli adulti, un modo per riaffermare il diritto all’immaginazione, si tratta di un libro complicato, pieno di giochi linguistici che, se trasportati in un’altra lingua, rischiano di perdere il loro senso originario; un libro infarcito di paradossi logici, canzoni “nonsense” divenute popolarissime in area anglosassone, frasi taglienti e crudeli, spiritosi giochi di parole a volte comprensibili solo a chi aveva fatto parte di quel microcosmo oxfordiano in cui Carroll aveva vissuto per quasi mezzo secolo.
Al di là delle tante interpretazioni che ne sono state date quella di Alice in Wonderland è una storia affascinante, che svela al lettore una serie di situazioni e di personaggi assolutamente surreali, o addirittura spaventosi destinati a svanire nel momento in cui Alice si desta dal suo fantasioso sogno: il Bianco Coniglio con tanto di panciotto e orologio da tasca, il grande Bruco azzurro che fuma il narghilè, il Pesce-valletto e la Rana-valletto, la Duchessa il Gatto del Cheshire che scompare e riappare, lo strano Cappellaio, la Lepre Marzolina, la triste e solitaria Finta Tartaruga, il re e la Regina di Cuori, il surreale processo al Fante di Cuori e la sfilata di bizzarri testimoni chiamati a deporre, ed infine l’esercito di carte impazzite che assale minacciosamente la piccola Alice la quale, nel tentativo di difendersi, si risveglia improvvisamente e si ritrova sdraiata su una panca con la testa in grembo alla sorella maggiore.
Quel meraviglioso, e a tratti inquietante, mondo si è dissolto lasciando nuovamente il posto alla realtà di tutti i giorni. Alice dovrà ancora una volta confrontarsi con una società in cui l’esistenza è spesso monotona, priva di forti emozioni, dove le stravaganze e le fantasticherie sono bandite e confinate negli spazi più reconditi dell’anima; l’unica speranza è che, crescendo e diventando adulta, Alice possa mantenere “il cuore giocondo e puro della sua infanzia”, raccogliendo a sé gli altri bambini e rendendo “brillanti i loro occhi con magnifiche, strane storie, forse anche con quella antica del Paese delle Meraviglie”.
di Mario Galeotti
Ottocento n 5 dicembre- gennaio 2002-2003
Categorie:Riviste
Tag:Alice nel paese delle meraviglie, Mario Galeotti, Rivista Ottocento
Ciao, una ottima ed esauriente biografia di un uomo irrisolto, Una carriera comoda nella Chiesa con poca partecipazione e una vergogmosa forma di pedofilia casta.
Nonostante il suo Alice e un meraviglioso racconto per ogni età.
Ciao, felice settimana, fulvio
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Ti confesso candidamente che mia nipote mi ha regalato il libro un paio di anni fa, ma non so il perchè, non l’ho mai letto. L’ho messo nella libreria e lì è rimasto.
Meno male che mia nipote non mi ha mai chiesto un mio parere sul libro ed io non le ho mai chiesto il suo.
Abbraccio virtuale
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