Simone Veil proveniva da una famiglia ebrea che viveva a Nizza. Andrè Jacob, il padre, di professione architetto, era un veterano della prima guerra mondiale. La madre, di orientamento ateo, lasciò gli studi di chimica per dedicarsi completamente alla famiglia. Simone Veil aveva tre fratelli. La famiglia Jacob si considerava repubblicano-borghese: non si poteva essere più francesi.
Nel 1944 l’intera famiglia fu arrestata dalla Gestapo. Il padre e il fratello furono deportati in Lituania e non fecero ritorno. La sorella Denise, che faceva parte della Resistenza, fu deportata nel campo di concentramento di Ravensbruck, ma riuscì a sopravvivere. Simone stessa fu deportata con l’altra sorella e la madre ad Auschwitz, dove tra il 1940 e il 1945 furono uccise più di un milione di persone, gran parte delle quali erano ebree. La sedicenne scampò all’immediata morte per gas perché si finse più grande. Le tre Jacobs appartenevano alle enormi masse di detenuti che nel gennaio del 1945 furono sfollati e trascinati verso ovest in una marcia di morte. La madre morì il 15 marzo per l’epidemia di tifo che imperversava a Bergen-Belsen, un mese dopo Simone e la sorella furono liberate dalle forze armate inglesi.
Simone Veil ha vinto anche vent’anni più tardi nella lotta per la riforma del paragrafo abortista. Dal 1974 al 1979 la colta giurista fu ministro francese della Sanità, la prima “Madame le Ministre” in assoluto. E si comprende al meglio il suo appassionato impegno in questa fondamentale questione femminile, se si osserva il retroscena della recentissima storia di questo paragrafo in Francia. Nel 1942, quando vaste zone del paese erano occupate dai nazisti tedeschi e dai fascisti italiani, l’aborto era dichiarato un “delitto contro la sicurezza dello stato” ed era punito con la pena capitale. In applicazione della legge, il 30 luglio 1943 la “creatrice di angeli” Marie-Louise Giraud. Che fu riconosciuta complice in ventisei casi di aborto, fu decapitata sulla ghigliottina nella prigione parigina de La Roquette dal giustiziere Jules-Henri Desfourneaux. Il capo di stato Philippe Petain le aveva in precedenza rifiutato la grazia. Nel 1988 il regista Claude Chabrol ha girato un film su quel caso spettacolare, con Isabelle Huppert nel ruolo della Giraud.
Dopo la Liberazione, la Francia tornò alla legislazione del 1923, in base alla quale le persone che praticavano un’interruzione di gravidanza rischiavano da uno a cinque anni di prigione, mentre le donne in gravidanza da sei mesi a due anni. E dal 1955 fu anche concesso l’aborto per motivi terapeutici. All’inizio degli anni Settanta tuttavia il dibattito sociale intorno all’aborto si era di nuovo intensificato. Gli oppositori alla punibilità dell’aborto resero noti i numeri nefasti; in quel periodo il numero di aborti illegali era valutato intorno ad alcune centinaia di migliaia. Molti venivano praticati in condizioni degradanti e pericolose per la vita della donna. Il movimento rivoluzionario del maggio 1968 aveva perciò impresso la necessità dell’autodeterminazione nei cuori e nelle menti delle francesi. Ma anche il fronte opposto si schierò, ricorrendo a paragoni da cui una donna come Simone Veil dovette sentirsi doppiamente ferita e colpita nell’onore di sopravvissuta e di cittadina. Chi osteggiava la legalizzazione dell’aborto non ebbe esitazione a paragonarlo all’Olocausto, a cui Simone Veil sarebbe dunque sfuggita due volte.
Circolò la parola genocidio: l’uccisione degli ebrei ad Auschwitz, gli esperimenti sugli animali e l’aborto legalizzato furono posti sullo stesso piano. Al culmine della discussione un deputato chiese al ministro della Sanità in parlamento se era veramente d’accordo a gettare embrioni in forni crematori. Il dibattito francese sull’aborto fu un ritorno al passato di venticinque anni.
Due eventi continuarono inoltre a inasprire la discussione. Il 5 aprile 1971 il Nouvel Observatuer lanciò un’azione spettacolare: “J’ai avortée (Ho abortito). Trecentoquarantatré donne francesi avevano sottoscritto il Manifesto delle battone, come fu presto battezzato, e furono incriminate per aborto. Tra loro c’erano donne famose come Jeanne Moreau, Catherine Deneuve, Marguerite Duras e naturalmente Simone de Beauvoir, che fu anche autrice del manifesto.
L’anno successivo nel sobborgo parigino di Bobigny si arrivò a un processo sensazionale. Sotto accusa era la diciassettenne Marie-Claire, che con il sostegno della madre e di due colleghe di lavoro aveva abortito. A denunciarla era stato il padre del bambino non nato.
In Simone Veil e in altre francesi della sua generazione il processo risvegliò ricordi del caso di Marie-Louise Giraud. L’avvocatessa della diciassettenne era Gisele Halimi, figlia di un berbero e di un’ebrea, che l’anno prima aveva fondato insieme a Simone de Beauvoir e altre il gruppo femminista Choisir la cause des femmes, per difendere le donne che avevano il Manifesto delle 343. Ora chiamò al banco dei testimoni molte di quelle donne famose, la ragazza infine venne assolta. Il tribunale motivò l’assoluzione con il fatto che la legge del 1923 aveva bisogno di una revisione.
Questo fatto determinò un cambiamento irreversibile nell’opinione pubblica francese in materia di aborto. Nel 1973 in un altro manifesto oltre trecento medici confessarono apertamente di aver praticato aborti. Anche il nuovo presidente della repubblica Valéry Giscard d?Estaing si adoperò per liberalizzare l’interruzione di gravidanza. Alla fine di novembre del 1974 infine l’assemblea nazionale discusse la nuova legge sull’aborto presentata da Simone Veil. Dopo una discussione di venticinque ore la “Loi Veil” fu approvata a grande maggioranza. La legge fu consapevolmente ideata come formula di compromesso: l’interruzione di gravidanza era libera fino alla decima settimana, la condizione erano due consulti e un periodo di riflessione di una settimana.
In qualità di ministro della Sanità Simone Veil, madre di tre figli, adottò inoltre misure che migliorarono i diritti e la situazione delle madri. E si preoccupò soprattutto di favorire un accesso più facile agli anticoncezionali. La pillola anticoncezionale, divenuta legale nel 1967 anche in Francia, alla fine degli anni Settanta veniva usata già dai due terzi di tutte le donne sui vent’anni. Per la prima volta così erano in condizione di decidere autonomamente il metodo contraccettivo senza dipendere dall’uomo.
da le donne che pensano sono pericolose di Stefan Bollmann
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