In questi giorni ho letto il libro di Nicola Pezzoli intitolato Chiudi gli occhi e guarda.
Il protagonista
Nome: Corradino.
Età: 12 anni e mezzo.
Segno zodiacale: Acquario.
Cosa farò da grande: ingegnere, o studioso di dinosauri, o al limite prete (però molto mistico).
Stato civile: divorziato da Stevanato Cristina (lei non ne sa niente).
Materia preferita: geografia.
Squadra di calcio: Inter.
Squadra di pallacanestro: Emerson Varese.
Macchina preferita: 128 Rally.
Letture: Tex e Topolini.
Canzone: Sweet Lady Blue.
Attore: Totò.
Golosità: la pizza al trancio da Quinto a Varese.
Cose che adoro: i gatti, giocare, la mamma, il Mare.
Cose che mi stan sul culo: la carne, i bulli, le bugie, e tutte quelle stupidaggini che devi fare uguale agli altri come una scimmietta ammaestrata, tipo ballare, cantare Tanti auguri a te, vestirti da festa, guardare il Telegiornale, recitare le poesie a memoria che diventano insulse.
Il libro si divide in due parti.
La prima parte descrive la partenza per il Mare, i parenti vari, il viaggio sulla 127 beige, la gente che si saluta con il clacson o i bimbi dai finestrini, l’incontro con gli zii: zio Dilvo che è lo zio cieco, e zia Fernanda che si raccomanda con lui da subito per come si deve comportare con lo zio…
[…] “No, zia, io non ho praticamente niente» le ho detto, con la voce che mi tremava dall’emozione. Stavo per dire “non ho un cazzo”, perché è un modo di dire che ho imparato alle medie, ma poi non l’ho ritenuto opportuno stante l’età molto avanzante della zia Fernanda. E poi ogni tanto ho dei problemi di tipo neuropsichiatrico, con quel coso. Cominciarono quando, invece di chiedere cosa significasse la parola cazzo ai bocciati come facevano tutti, pensai di chiederlo alla mamma, un mattino che ero già con la cartella e il cappotto, pronto per uscire. Non le perdonerò mai di non avermi detto una cosa tipo “quello che i bambini chiamano pirillino gli adulti lo chiamano cazzo” (anche se niente avrebbe comunque saputo dirmi dell’Era Intermedia del Pirillazzo). Invece mi disse a tradimento «è il marito della fica», con un tono fra il brusco e l’imbarazzato che mi fece intuire due parole al prezzo di una, e mi fece temere che avesse intenzione di farmela vedere. Naturalmente non era così, però per sicurezza scappai via dalla cucina il più svignosamente possibile. Mi capita di sognare che nel fare il bidè me lo stacco per lavarlo meglio. Ma dopo è sempre un gran casino. Si stacca agevolmente come una cosa svitabile, ma poi a riattaccarlo non ci si riesce, e magari ha pure il coraggio di sanguinare. Da svegli meglio non provarci. A volte anche le persone che amiamo possono rivelarsi stupide, come la mamma con la cazzata del marito della fica. (Che poi da noi si dice “figa”. Chissà da dove le era uscita fuori quella “fica”, che mi fece ancora più impressione per via dell’associazione di idee col frutto molliccio e grumoso). L’importante è ammetterlo con noi stessi, altrimenti si diventa una cosa molto brutta che si chiama succube dei genitori, come tanti poverini che conosco.”
Poi le giornate trascorse con loro, la dolcezza dello zio cieco che vede più di un vedente…
[…] Per dire qualcosa, gli chiesi come mai non avesse ancora indagato il mio viso coi polpastrelli.
«Che idiozia» sbottò, «questo cliché balengo dei ciechi che ti impastano la faccia con le mani, come avessero l’urgenza di apprendere se hai il naso lungo sei centimetri oppure cinque, se assomigli a un gatto o a un babbuino, neanche fossero dei maniaci! L’unica fortuna di noi ciechi è proprio il non farci influenzare dagli zigomi e dalle labbra, e dovrei rinunciare a un simile dono pastrugnando come un ossesso famelico le facciacce altrui? Io le mani le tengo a posto». Riprese fiato e poi, intuendo che ci stavo rimanendo male, si raddolcì nel tono: «A me interessa come pensi e come parli. Per il resto, so che un minuto fa eri un embrione e che fra un altro minuto sarai polvere, come tutti. E se nell’intervallo fra la pancia della mamma e lo sbriciolamento dello scheletro riuscirai a rendere il mondo un posto migliore di come l’hai trovato, dipenderà da come sei fatto dentro e da come agisci, dalla tua nobiltà e gentilezza, non dall’avere le orecchiette piccole e belle o a sventola come gli elefanti»……
La seconda parte inizia proprio con la sua presentazione, continua con il suo innamoramento per Daniela, la delusione provata in seguito all’arrivo del suo fidanzato, i giochi estivi con altri ragazzi più o meno della sua età, l’incontro con Alex, un bimbo un po’ più piccolo di lui con dei problemi, lui riesce a diventarne amico ma poi succede qualcosa che davvero lo rende consapevole di chi è o di chi sta diventando…Qui, a mio parere inizia la maturazione del ragazzo…
[…] “Non siamo mai all’altezza di niente. Non siamo capaci di non deludere gli altri, e noi stessi. Non siamo all’altezza. Perdonami, Alex.”
Il libro termina con un messaggio lasciato su un nastro dallo zio Dilvo venuto a mancare. Messaggio sulla vita che lo aspetta…
[…]”Una lezione – la più decisiva – che avrei fatto di tutto per imparare. Lo ripromisi a me stesso, e lo promisi al nastro che alla fine andava avanti riproducendo una pausa infinita piena di verità non dette, forse ancora da dire, forse da tenere nascoste per meglio proteggerle. Ancora una volta quel cieco mi aveva aperto gli occhi.”
L’autore descrive la consapevolezza di un cambiamento in atto. Il ragazzo da adolescente sta entrando in una fase di vita più adulta. Le sue paure di adolescente, le sue incertezze, i suoi dubbi vanno scomparendo per lasciare spazio ad un nuovo ragazzo. In fondo è un periodo di transizione che è capitato a tutti noi. Forse è per questo che, proseguendo nella lettura, ci si riesce ad immedesimarsi in Corradino.
Un libro trascinante nella sua narrazione. Dall’inizio alla fine si fa leggere, impossibile interrompere, sarebbe come perdere un pezzo di vita del protagonista e della nostra.
Ne sono rimasta entusiasta, decisamente.
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